I lavoratori dello sport, sia autonomi che subordinati, devono essere iscritti all’Inps

I datori di lavoro o i committenti dei collaboratori sportivi sono obbligati a versare i contributi previdenziali all’Inps. Lo ha sancito pochi giorni fa la Corte di Cassazione con la sentenza numero 11375/2020 che ha confermato la pronuncia della Corte d’Appello di  Roma di condanna  di un club sportivo al pagamento di euro 17mila quali contributi non versati all’Enpals (al quale è succeduto l’Inps)  relativi a tre istruttori di tennis.

    Il club contestava in particolare la sostanziale equiparazione dal punto di vista previdenziale  della categoria dei lavoratori dello sport a quelli dello spettacolo ed il fatto che il tennis club, essendo un’associazione senza scopo di lucro, non avesse alcun obbligo contributivo. Secondo il medesimo club sportivo i compensi dei lavoratori sono esclusi dall’obbligo contributivo ai sensi dell'articolo 67 lettera m) del TUIR, che include fra i cosiddetti redditi diversi quelli derivanti da attività svolte nell'esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche.

    Spiega la Suprema Corte che la  legge  n. 29 novembre 1952 n. 2388 di ratifica del dlgs. 708/194,  ha previsto l'obbligatoria iscrizione, tra gli altri, degli «addetti agli impianti sportivi» registrando quindi un' estensione della tutela di figure professionali accomunate dalla finalità di intrattenimento della prestazione, al di là del carattere propriamente artistico.

    La legge 289/2002, che sostituiva il dlgs. 708/1947, stabiliva poi che le categorie dei soggetti iscritti all’Enpals ovvero “le figure professionali operanti nel campo dello spettacolo e dello sport” ( sia autonomi che subordinati) fossero riviste periodicamente sulla base di un decreto del ministero del lavoro sentite le organizzazioni più rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro.

   Il d.m. 15 marzo 2005 ha provveduto a tale rimodulazione inserendo tra le categorie iscritte all’Enpals gli «impiegati, operai, istruttori ed addetti agli impianti e circoli sportivi di qualsiasi genere, palestre, sale fitness, stadi, sferisteri, campi sportivi, autodromi» tra i quali, nel caso specifico, rientrano gli istruttori di tennis.

   In merito alla qualifica come  “redditi diversi” dei compensi corrisposti agli istruttori la Cassazione statuisce che “la condizione affinché detti redditi possano essere considerati tali, espressamente prevista dal primo inciso dell'art. 67, è che essi non siano «conseguiti nell'esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, ne' in relazione alla qualità di lavoratore dipendente», intendendosi per esercizio di arti e professioni, ai sensi dell'art. 53 del TUIR «l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di attività di lavoro autonomo» diversa dall'attività di impresa”. Nel caso dei tre istruttori, al contrario, la Corte d’Appello accertava che pur essendo “lavoro autonomo di natura professionale”,  l’attività veniva per l’appunto  svolta con abitualità.


                                                                                                                                     Di Fausto Fasciani, avvocato